PESCIA (PT). Nonostante il potere decisionale sia maschile, nonostante ai vertici mondiali ci siano uomini, nonostante le leve del mondo siano azionate da maschietti, nonostante questo e mille altre cose ancora, il buono e il cattivo tempo lo continuano a fare le donne. A irrobustire ulteriormente questa teoria – che più che una teoria è una delle leggi, insindacabili, della fisica -, ci pensa Gianni Clementi, romano doc, che proprio attorno alla potenza delle sfumature dello slang metropolitano ha costruito il suo castello artistico. Esempio lampante, L’Ebreo (che ha riempito il Teatro Pacini di Pescia), dove l’avvenente Immacolata Consalvi (Nancy Brilli), sotto la regia di Pierluigi Iorio, divenuta improvvisamente ricchissima, escogita un piano diabolico affinché quella manna cadutale improvvisamente dal cielo tredici anni prima resti limo fertile per quel che le resta da vivere. La fortuna improvvisa sono le leggi razziali del 1938, in virtù delle quali tutti gli ebrei italiani, per non perdere i loro sconfinati possedimenti economici, furono obbligati a intestare a prestanome fidati i loro beni, nell’augurio che, una volta finito l’olocausto, potessero riprendere il governo delle loro ricchezze. Molti, moltissimi, dalle deportazioni e dai campi di concentramento non tornarono a casa, ma alcuni di quei pochi, pochissimi, che scamparono alla morte, dovettero fare i conti, nello specifico, con la signora Consalvi, che della villa nella quale abita e degli affitti che mensilmente riscuote, tutto ereditato dalla fuga dell’ebreo, non vuole assolutamente privarsene, anche se, tredici anni dopo, quell’uomo, che tutti credono morto, riappare. Per Marcello Consalvi (Fabio Bussotti, che tutti ricorderanno come il tontolone con occhiali enormi della reclame dei wafer Urrà) invece, il marito, quei tredici anni vissuti molto al di sopra delle loro possibilità è una parentesi, meravigliosa, che s’ha da chiudere; lui, del resto, seppur passato da garzone di bottega a proprietario, lo zinale non se l’è mai tolto e la notizia del ritorno del legittimo proprietario, che tanta ansia produce nella moglie, per lui, invece, è quasi una liberazione. Ma donna Immacolata, di tornare a vivere in un modestissimo appartamento d’edilizia popolare in periferia e riprendere la routine della precedente sopravvivenza, non ne vuol sapere. La figlia del resto, che si è sposata alcuni giorni prima con una cerimonia principesca e ora in viaggio di nozze tra la Francia e l’Inghilterra, ignora che le ricchezze dei suoi genitori siano a tempo determinato e che finiranno, inesorabilmente, quando L’ebreo farà ritorno a Roma. Accanto ai coniugi, c’è Claudio Mazzenga, lo stagnaro, amico fraterno del marito, che in gioventù, però, non rimase indifferente alle lusinghe sensuali di Immacolata, un uomo che proprio come i Consalvi prima della botta de culo vive sull’orlo della lama del rasoio, tra mutui e debiti difficili da smaltire. Il piano diabolico di Immacolata ha bisogno di due grandi complici: il marito, a cui fa credere che L’ebreo, anche se in giro si dicesse fosse frocio, avesse ripetutamente approfittato della sua posizione per abusare dell’impotente giovane signora e il suo vecchio amante, a cui assicura quarantamila lire, cifra questa che gli garantirebbe l’immediata estinzione di tutti i buffi. Ma il sapore del thriller, in questa diabolica messinscena, non affiora. Restano, sospese, alcune battute in un romanesco anni ’60-’70 che riescono a far sorridere solo un pubblico datato come quello pesciatino e una perfida sensualità usata però solo con il contagocce, con la medesima parsimonia immaginando un pubblico non giovanissimo come quello del Teatro Pacini. Il cinismo femminile da cui abbiamo preso spunto per sviluppare la recensione è assicurato, vero, così come il famelico desiderio di ricchezza, onnipotenza, prestigio, anche se posticcio, ereditato e senza alcun diritto, ma l’impressione ricevuta è che non si sia, precauzionalmente, spinto il piede sull’acceleratore, soprattutto pensando alle reminiscenze cinematografiche di Nancy Brilli, meravigliosa complice della Mandakata, con quesi due mostri sacri della risata, Gigi Proitetti ed Enrico Montesano, lasciando così tutti felicini e contentini, cornuti e mazziati.