PISTOIA. L’intero e nutrito cast de La pulce nell’orecchio, in scena al Teatro Manzoni (si replica stasera, giovedì 13 marzo, alle ore 20,45), non poteva non distinguersi, oltre che per immancabili ed elementari doti attoriali, anche per quelle, altrettanto indispensabili, musicali e canore. Perché se si ha idea di rileggere, così scrupolosamente, George Feydeau, non si può fare a meno di cimentarsi con ogni sua febbrile attenzione: scrittura, scenografia, drammaturgia, matematica e sintassi, tanto nei colloqui, quanto nel periodare musicale e fisico. Per questo, il regista, Carmelo Rifici, nell’assemblare il corpo teatrale, ha scelto, oltre al funambolico Tindaro Granata, con cui ha spartito traduzione, adattamento e drammaturgia, undici giovani attori che sapessero cavarsela, con egregia disinvoltura, tanto nell’arte recitativa, quanto in quella strumentale e canora. Senza dimenticare quella ginnica, perché per l’intera durata della rappresentazione (oltre due ore), oltre alle pareti in gomma piuma sulle quali hanno potuto e dovuto balzare e rimbalzare con ritmica frenesia, i magnifici dodici non si sono potuti nemmeno sottrarre dalle fatiche di rincorrersi sulle scene, una grande circonferenza roteante, utile a trasformare il soggiorno della dimora degli Chandebise nella hall dell’equivoco e malfrequentato Hotel du Minet Galant, un albergo alla periferia di Parigi. I personaggi del testo originario (il maggiordomo con difficoltà di pronuncia delle consonanti, mariti e mogli, il medico, l’inserviente, il gestore e la compagna dell’albergo - con tanto di cameriere al seguito - usato quasi esclusivamente per incontri galanti, ma clandestini e il vecchio affetto da reumatismi) ci sono tutti (Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi e Carlotta Viscovo) e tutti impeccabilmente interpretati. Il problema, non da poco, visto che siamo a Teatro, è che l’umorismo satirico di Feydeau, del quale, all’epoca, si cercò di addolcirne la graffiante critica alla borghesia francese, cercando di barattarla come una semplice pulce nell'orecchio, un innocentissimo dubbio e non una detestabile e peccaminosa abitudine dei costumi, non suscita più quella massiccia dose d’ironia grazie alla quale, centodiciotto anni dopo la prima rappresentazione, l’autore fu in grado di mettere allora in discussione lo scettro drammaturgico del suo impareggiabile collega connazionale Molière. Le risate non sono più, oggi, energiche e fragorose come quelle che ne accompagnarono gli esordi; no, non dipende dalla nostra attuale e contemporanea predisposizione alla risata, altrimenti, Charlot, Stanlio e Ollio, Buster Keaton e tutti quelli del muto, dovrebbero restare, con il dovuto e rispettoso oblio, a riposare nei propri ossari. E visto che lo spettacolo è, teatralmente, inappuntabile, ci corre l’obbligo, per dargli il giusto merito e la dovuta risonanza, di suggerire, per amor loro e dei futuri spettatori, le prossime uscite nelle matinée, riempendo le platee con gli studenti della quinta elementare. Oh sì, certo, i nostri marmocchi non somigliano certo noi alla loro età, ma una performance così curata nei dettagli, una meticolosa e inaspettata drammaturgia, una naturale predisposizione agli slang, agli accenti, ai dialetti e al poliglottismo, merita almeno l’opportunità di misurarsi con un pubblico che alle gag dei fraintesi, dello scambio di persona, di fronte alla poliedricità attoriale e sonora dei protagonisti, sappia divertirsi come succedeva un secolo fa e come dovrebbe succedere ancora oggi.