PISTOIA. La linea di demarcazione che separa, nella sfera dei rapporti eterosessuali erotico/sensuale/sentimentale, il lecito dall’illecito, il possibile dall’inaccettabile, l’intraprendenza dalla sopraffazione, è sottilissima. E più la posta in palio si fa golosa e più la tolleranza tende ad ammorbidirsi, perdendo il suo manicheo rigore. Nel mondo dello spettacolo, la situazione si esaspera all’ennesima potenza e con il crescere della visibilità mediatica le candele valgono molto più del gioco. E sul giocare, infatti, Caroline Baglioni, attrice perugina quarantenne che vanta, oltre ad un fascinosissimo strabismo di Venere, anche e soprattutto le attenzioni professionali di uno dei registi più efficaci e interessanti del panorama italiano, Antonio Latella, scrive Play, scegliendo Annibale Pavone come il regista carnefice che alla ricerca di un’attrice sembra voler cercare di unire, ignobilmente, utile a dilettevole. La rappresentazione, diretta da Michelangelo Bellani, altro umbro della scuderia del Teatro di Perugia, è arrivata, ieri, in prima regionale, al Funaro di Pistoia, con il patrocinio del Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Pistoia e dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e Periti Contabili di Pistoia. All’orizzonte, c’è la festa dell’8 marzo, quella delle donne e delle mimose e non si può certo mancare l’appuntamento con i rituali, così come i mafiosi e gli evasori fiscali onorano il Natale. Ma non è di questo che vogliamo parlarvi, perché non è per questo che siamo stati accreditati allo spettacolo. Ci preme il Teatro e di Teatro, in questo Play, ce n’è a sufficienza, a cominciare dalla rete protettiva, uno schermo trasparente, ma fuligginoso, che separa il palcoscenico dalla platea e dove Annibale Pavone, regista che prende appunti dando le spalle al pubblico, aspetta la visita dell’attrice candidata, come chissà quante altre, a ricoprire quell’ambito ruolo. È un provino, una chiacchierata per sapere con chi ha a che fare, è sondare il tasto della situazione per sapere quanto sia disposta a concedere e concedersi, l’attricetta, perché la produzione le assegni la parte? Non si sa, non si sa mai, in queste situazioni; l’equilibrio delle numerose aspiranti penderà inesorabilmente dalla parte di una sola, quella che riuscirà a convincere, meglio di tutte le altre. Ma come? Con un monologo preparato a casa nei giorni, febbrili, che precedono l’incontro? Con dodici fotografie inviate con raccomandata il giorno dell’apertura del bando? No, il regista ha in mente un’altra cosa: fare il giochino delle tre stanze, dove lui, dietro una macchina da presa, inquadra inesorabilmente la candidata che si deve spostare da una stanza all’altra parlando in terza persona della sua vita, della sua prima esperienza erotica e di sé stessa in prima persona, riprendendo esattamente il filo del discorso laddove l’enigmatico e forse inutile quiz, inutile al fine della missione, le ha fatto abbandonare la camera. I ruoli si invertono; la vittima, messa con le spalle al muro, diventa carnefice e il carnefice, che avverte di non poter più giocare con la candidata al gatto e al topo, diventa vittima. Ma non succede nulla di trascendentale; i due protagonisti finiscono per lasciarsi nell’attesa di un’eventuale chiamata, dopo lo spoglio delle altre pretendenti. Visto che parliamo di violenza, di genere, fisica, morale, intellettuale, il regista avrebbe potuto dirigere qualcosa di più efferato, criminale, sadico; siamo convinti, per storicismo teatrale di entrambi, che avrebbero, tanto Caroline che Annibale, più che dignitosamente interpretato i rispettivi ruoli. Invece, si resta sospesi, aspettando un’altra occasione, una nuova denuncia e una inevitabile probabile archiviazione.