FIRENZE. Nell’imbuto della vita ci finiamo tutti. Dell’amore e dell’arte non se ne può fare a meno e sono queste due cose che in fondo al viaggio, prima che l’esistenza ci catapulti chissà dove, ci terranno compagnia, riuscendo a fare in modo e maniera che il calice della fine, al quale dobbiamo un giorno abbeverarci, non ci uccida prima di morire. Annibale Ruccello non sapeva, né poteva immaginare, che la sua fine fosse lì, che lo aspettava, trentanove anni fa, lungo l’autostrada del Sole e non sarà una coincidenza, forse, ma solo perché chi crede nel subliminale, che la sua ultima opera sia stata proprio Anna Cappelli, ieri al Teatro di Rifredi (si replica stasera, 18 gennaio) sotto la cura di una devastante Valentina Picello, entrata in sintonia con il suo personaggio prima ancora che si spengessero le luci in sala e senza abbandonarlo nemmeno al termine della rappresentazione, quando le luci si sono nuovamente accese e il pubblico, tutto, invece che rincasare, ha preferito restare lì, seduto, a condividere con la mattatrice piemontese gli strascichi emozionali della sua interpretazione, che con il trascorrere del tempo è diventata collettiva, spiegati dall’incontro previsto e moderato da Matteo Brighenti, giornalista attento, sensibile, preparato. Quando la vita riserva, quasi esclusivamente, miserie, privazioni e sconfitte, l’amore ha un effetto salvifico, una meravigliosa panacea che riesce, incredibilmente, a riempire tutti i vuoti e i buchi precedenti. Anche l’arte produce effetti analoghi, ma è attraverso l’arte che si insegue, su un canale preferenziale, la via dell’amore. È quello che ha provato a fare Anna Picello, costretta a vivere, per lavoro, lontano da casa, senza riuscire a diventare una nuova cittadina altrove, ma perdendo anche, allontanandosi, la residenza originaria, come la cameretta da letto, destinata dagli anziani genitori di campagna a una delle sorelle. Valentina Picello passeggia scalza sul palco, ricoperto da terra secca e arida, dove trovano albergo circolare una poltrona, una piccola mensola dove è appoggiato un telefono, una lavatrice, un frigorifero e nel mezzo della scena un lampadario caduto a terra, che illumina fioco quel luogo/non luogo, quella memoria/non ricordo, quei sogni/non sogni. Dialoga, animosamente, con la proprietaria dell’appartamento, la signora Tavernini, che le ha affittato una stanza ammobiliata, con i suoi genitori che le hanno fatto la sorpresa di non farle trovare più la sua stanza dove ha trascorso l’adolescenza e con il Ragioniere della Pubblica Amministrazione, Tonino Scarpa, che diventa, improvvisamente e inavvertitamente, il suo riscatto, il suo amore, la sua vita. Basta un complimento, una promessa, un appuntamento e sei mesi di rodaggio sentimentale perché la vita di Anna Cappelli cambi radicalmente. Lascia la stanza ammobiliata in affitto, cessa di serbare rancore ai suoi genitori che l’hanno spodestata dalla sua cameretta e abbandona anche il lavoro: le bastano, con gli interessi, le lusinghe del fidanzato, gretto nei modi, ma abbastanza lungimirante nel convincerla dell’inutilità del matrimonio, e va a vivere con l’uomo della sua rinascita, il Ragioniere, che la nomina, tacitamente, Regina di quella villa enorme, con dodici stanze. Nei successivi due anni di convivenza Anna Picello si trasforma in inconsapevole carnefice: fa licenziare la tata del fidanzato, che l’ha visto crescere, e si impossessa della sua vita, provando a stravolgerla. Fino a quando il Ragioniere Tonino Scarpa prende la drastica decisione di vendere quell’enorme reggia e mettere alla porta la sconsolata fidanzata. Non basta il camaleontismo di Valentina Picello a mettere in scena il testo di Annibale Ruccello, magnifica negli sbalzi umorali, tenera nell’emozione delle opportunità, sensuale nei giochi di coppia, keatoniana nelle soluzioni; complice, privilegiato, di questa trasposizione scenica è Claudio Tolcachir, il regista, che con l’attrice ha già diviso e condiviso altre esperienze teatrali, inevitabilmente e inesorabilmente concentrate sulla interpretazione del testo, più che del copione. L’epilogo, comunque, seppur tragicomico nelle movenze, è pur sempre un omicidio; o meglio, un femminicidio al contrario, con tanto di scena del crimine devastata dal macabro e dalle ceneri di un incendio, doloso, scaturito dalle fiamme provocate dalle ossa smembrate dopo l'omicidio del Ragioniere, date alle fiamme per incenerire, prima che fosse venduta, la Reggia dei desideri, dei sogni, delle disillusioni.