FIRENZE. Entrare nei panni e nella vita degli altri è l’abitudine, per chi calca i palcoscenici. Certo, in quelli di Maria, la mamma di Gesù, non è proprio prassi consolidata attoriale; di quel poco che sappiamo, infatti, nonostante si sia così poco ferrati su sacre scritture, bibbia, vangelo e tutto quello che gravita attorno alla religione cattolica (delle altre ne sappiamo ancor meno; sempre di oppio si parla), lei è mamma anomale, perché si sa, lei concepì senza peccare. La tentazione, a tal proposito, sarebbe quella di scomodare la secolare diatriba femminile, prima che femminista, che recita che molte donne chiesero, in grazia, di peccare senza concepire. Ma In nome della Madre, nonostante sia un testo scritto da uno degli atei più illuminati e religiosi del nostro tempo (Erri De Luca), non è un manifesto abortista, ma il punto di vista, tenuto all’oscuro, della grande protagonista della vita: Maria. Perché della Sacra Famiglia, credenti o disfattisti, si sa quasi tutto del padre e del figlio, ma poco, troppo poco, sulla madre. E allora, l’alpinista napoletano, che ha scritto libri di rara bellezza (li abbiamo letti tutti: meravigliosi), nel 2006 si è messo all’anima di mettersi dalla parte della mamma delle mamme, inconsapevole, e ha pubblicato un libricino di infinita tenerezza, coraggio, sensibilità e pudore, gli stessi che Danilo Nigrelli, il regista, ha usato quando ha chiesto a Patrizia Punzo (la delicata mattatrice) di provare a immaginare cosa abbia voluto dire, per quella giovane galilea, accettare una gravidanza annunciata, ma non consumata, prima ancora di essere moglie di Giuseppe. Erano tempi, quelli, di imperdonabile disonore, che si poteva lavare solo con la lapidazione, la morte. Maria sfida la legge; non fingerà di essere stata abusata, né scapperà altrove, ma rivendicherà quella casta maternità come un dono. La rappresentazione teatrale, in scena al Cantiere Florida di Firenze, prodotta da Elsinor, Centro di Produzione Teatrale, è una fedele fotocopia del testo di De Luca, tradotta in teatro da due sedie, un velo bianco e una mangiatoia e una signora, Patrizia Punzo, di mezza età, che nonostante bazzichi scene e location cinematografiche da trent’anni, continua ad avere quella faccia e quella sagoma da professoressa liceale, più di matematica, che di lettere o storia e filosofia. Ma occorreva tutto il suo rigore, tutta la sua precisione, tutto il suo candore, tutta la sua naturale potenza, così lontano da ogni preordinazione scenografica, per riuscire a rendere, con la stessa nitida efficacia, la bellezza e la semplicità del testo scritto. Un paio di jeans, una camicetta scura e un paio di scarpe, tolte e cambiate con un paio di sandali che aspettavano di essere calzati per affrontare quel lungo viaggio fino a Betlemme. Un’interpretazione magistrale, una potenza devastante, ricca di tanti minuscoli, semplici e impercettibili accadimenti, con un uso della voce e del corpo elementari, ma sontuosi, anche a costo di dover obbligare la platea a prestare religiosa attenzione anche solo ai sospiri, visto che la docente romana ha voluto fare a meno anche della farfalla, confidando solo e soltanto nel proprio diaframma, accompagnato dal lento ticchettio dello sgocciolare della pioggia, mista a nevischio, che sabato sera è stata la naturale colonna sonora di tutta la rappresentazione, scandendo e, rendendolo ancor più magico, quell’incredibile passaggio dalla Galilea, attraverso il mare e fino a quella capanna, dove da sola, con il calore di una mucca e dell'asino che l'ha condotta fin lì, dovrà affrontare il parto, chiedendo agli stessi che l'hanno annunciata, di salvare suo figlio dall'immane violenza che invece dovrà sopportare. Una maternità voluta a tutti i costi, da una madre in attesa senza essere stata violata e un padre che, accecato, ma illuminato, dall’amore verso quella giovane donna, affronta ogni peripezia. Un messaggio totale d’amore, verso gli uomini e le donne con le quali sottoscriviamo un progetto e verso il figlio, i figli, che appartengono, almeno fino a quando l’alba non rischiarerà le tenebre, solo e soltanto alle madri e che i padri, dal primo vagito in poi, anche se i piccoli dovessero essere muti, dovranno conquistare con il coraggio, la tenerezza, la forza, la presenza e l’abnegazione.