di Sura Bizzarri
POICHE' oggi fa molto caldo e non ho premura, voglio concedermi un giorno di pausa dal lavoro. L’aria è spessa, pesante sulla pelle, potrei socchiudere le persiane e distendermi sul letto, al solo contatto delle lenzuola fresche. Ma voglio uscire e non riesco a rinunciare all’amica di sempre, colei con la quale condivido il mio lavoro e tutta la mia vita. Inforco la bretella della Nikon ed esco. Poiché non ho voglia di incontrare amici, la mia direzione è il parchetto antistante la stazione ferroviaria, per mescolarmi a passeggeri anonimi e ai ragazzini fra le altalene sgangherate. Poiché ho deciso di non lavorare userò la mia Nikon come puro esercizio di stile fotografico, come occhio della curiosità, a completa disposizione del mio senso estetico. Pensieri non ne ho; solo idee sparse che rimbalzano nel vuoto interiore. I miei occhi sono obiettivi alla ricerca di forme e suggestioni. Poiché sono fermamente convinto che una buona foto può nascere nel luogo più anonimo, mi siedo sulla vecchia panchina in ferro battuto corrosa dal tempo e attendo, attendo passi, suoni che dirigano il mio sguardo, movimenti degni di attenzione; cose portate dal vento, gambe che scendono sulla banchina, freni lucidi che stridono o opachi e cupi e sferraglianti. Qualche scatto, per prendere confidenza col luogo, per calcolare le inquadrature, le forme geometriche che possano dare movimento e profondità all’inquadratura.
Poiché l’ora di pranzo è trascorsa da poco e il passaggio di persone è relativamente scarso, scatto qualche selfie, dirigo cioè l’obiettivo sul mio volto mettendo a fuoco a tratti me stesso, a tratti il paesaggio che fa da sfondo a quel primo pomeriggio stagnante. Proprio dietro la mia nuca spuntano due ometti anziani con la borsa della spesa, la patta dei pantaloni sbottonata e le camicie di lino attraverso le quali si intravedono le spalle larghe delle canottiere bianche. Voltandomi verso il lato opposto, sempre dietro la mia nuca, emergono due ragazzini seduti nella terra polverosa mentre scambiano figurine. Mi sembra un gesto desueto, che riporta alla mia infanzia e che credevo dimenticato nell’era digitale. Poiché la noia umida dell’afa cala sui miei occhi, cerco qualcosa che attiri la mia attenzione. Proprio in quel momento un treno lento, con la vernice sbucciata e malmessa arriva da lontano, le rotaie allagate dal sole spento nella cappa di calore. Quel treno sembra una nave che galleggia su una corsia d’acqua, un miraggio. Sento il calore del metallo e volto di nuovo la testa; scatterò un selfie, fotograferò me stesso nella cornice di un arrivo terrestre che sembra marittimo. Poiché gli attimi sono importanti e son capaci di indirizzare le nostre vite, le mie dita agili scattano velocemente, come se qualcosa stesse per sfuggire alla mia percezione e inquadrano, inconsapevolmente, il momento preciso in cui una giovane donna si affaccia al finestrino, le labbra socchiuse, lo sguardo rivolto indietro. Qualcosa, impercettibilmente, arriva a colpirmi in pieno petto, forse un insetto scaraventato verso di me dal movimento d’aria provocato dal treno. Ma nell’obiettivo, la sagoma che saetta, l’unica cosa in movimento, è una pallottola lucida d’ottone, probabilmente diretta alla ragazza, ma che qualcosa ha dirottato verso di me. Con stupore sento una presenza sulla panchina, seduta con noncuranza accanto a me. È la morte, che con sonnolenza, ha spiato la mia curiosità distratta e, con naturalezza estrema ha saputo attendere il momento giusto per palesarsi ai miei occhi. Poiché non sempre quello che è più evidente salta subito all’occhio. O forse è la percezione stessa a lasciarsi catturare da particolari meno importanti, più lontani e meno influenti. Mi congedo, la mia estate finisce qui, nessun rammarico; in fondo le cose accadono senza un motivo preciso, magari mentre scatti selfie per vincere la noia delle ore più calde. Vi lascio la mia Nikon, fatene buon uso. (Foto di Toti Clemente)