di Marta De Sandre

Il bambino con il pigiama a righe è un libro che spesso, ogni fine gennaio, viene consigliato dalla docenza della scuola dell'obbligo ai ragazzini delle medie. Peccato che a fine gennaio si celebri la giornata della memoria e la memoria, a quanto mi risulta, dovrebbe essere precisa e veritiera. E qui di preciso e veritiero c'è davvero poco. Si ha l'impressione che John Boyne abbia avuto, durante una nottata di follia e Guinness in perfetto stile irlandese, l'idea di scrivere un romanzo che doveva finire con una specie di inversione di ruoli tra un bambino ariano e uno ebreo.

 

Non so come si scriva un romanzo e magari è anche normale che si parta da un finale per poi costruire il resto della trama, ma immagino che quando la trama non regge si debba decidere di cambiare il finale, o cambiare la trama, o smettere di scrivere e fiondarsi al pub per una pinta. Lui invece ha finito di scrivere, è stato pubblicato ed ha anche avuto successo. Per descriverlo brevemente faccio la stessa operazione che ha fatto Boyne: parto dal finale, è ovviamente uno spoiler, ma vi assicuro che non si perde nulla. Il bimbo ariano finisce nella camera a gas mentre il bimbo ebreo si salva. I due bimbi erano diventati amici, uno internato nel campo di Auschwitz e l'altro, figlio del comandante del campo stesso, giocava nella campagna: tra loro solo il filo spinato. Il bimbo ariano giocava con il bambino ebreo perché non sapeva nemmeno chi fossero gli ebrei, credeva che Auschwitz fosse una specie di collegio dove i bimbi giravano con un pigiama a righe. Papà Gestapo non gli aveva raccontato nulla, l'unico infante tedesco a non essere cresciuto a pane e antisemitismo.

In conclusione: non si è mai troppo giovani per leggere Se questo è un uomo e se dobbiamo regalare una memoria ai nostri figli, facciamolo bene.

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