di Marta De Sandre

L'autore, Israel J. Singer, è il fratello di e questo libro, La famiglia Karnowski, dovrebbe essere il suo capolavoro. Le recensioni erano entusiaste; me l'avevano consigliato caldamente, tutti urlavano al tesoro riscoperto. Ho cercato in ogni modo di farmelo piacere, non per il libro in sé, ma per l'autore: avrei voluto dire che bravo Israel, altro che quella mezzasega di suo fratello premio Nobel. Partivo anche avvantaggiata dal fatto che La famiglia Moskat, del fratello bravo, mi era sembrata, ai tempi, un mattonazzo indigeribile.

 

Ero ansiosa di trovare quello bravo e che quello bravo non fosse, una volta nella vita, il fratello famoso, ma quello sfigato, tra l'altro morto giovane. Insomma, io già gli volevo bene a Israel e gli ho dedicato tanto tempo e tante speranze. La storia di questa famiglia ebrea parte da Varsavia con il capostipite David all'inizio del 900, passa per Berlino e finisce negli Stati Uniti in piena epoca nazista. I nazisti non sono mai chiamati nazisti, ma quelli con gli stivali e non è certo colpa sua se noi, ora, con gli stivali, conosciamo solo il gatto con la voce di Banderas. Ma vi assicuro che dopo un centinaio di pagine, questa cosa inizia a diventare irritante. Succedono un sacco di cose: immaginate la Berlino degli anni del Terzo Reich; ma lo stesso arrivano tutti negli Stati Uniti, non solo tutti i Karnowski, ma anche i vicini di casa, gli amici, il panettiere.

Si ritrovano tutti, come fossero stati teletrasportati e sono di nuovo tutti vicini di casa, nemmeno uno che si sia perso per qualche strada, o qualche lager. Il valore di questa opera è storico e gli riconosco il pregio di aiutare a capire la questione ebraica, non solo nel delicato periodo tra le due guerre, ma anche agli inizi del secolo scorso e poi nel dopoguerra. Mi chiedo se questo basti a fare della famiglia Karnowski un buon romanzo.

E mi rispondo di no.

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