di Marta De Sandre
Céline era una merdaccia, davvero una brutta persona. Collaborazionista, filo-nazista, antisemita. I peggiori ista e anti li aveva lui. Ho guardato il video di una sua intervista e credevo mi sarei trovata di fronte un uomo disgustoso e irritante.
Invece la sensazione è stata di profonda inquietudine perché in lui si concentrava tutto il nichilismo del mondo, il suo modo di fare era profondamente sprezzante (perché nel cervello d'un coglione il pensiero faccia un giro, bisogna che gli capitino un sacco di cose e di molto crudeli), la sua ironia caustica (chi parla dell'avvenire è un cialtrone, è l'adesso che conta. Invocare i posteri, è parlare ai vermi), i suoi sorrisi smorfie e i suoi occhi riflettevano un abisso nero pece. E in questo abisso ci ha portati con la sua prima opera, universalmente riconosciuta poi come la più famosa: Viaggio al termine della notte.
La storia, fortemente autobiografica, narra la vita di un uomo dalla prima guerra mondiale all'emigrazione nelle colonie africane prima e negli Stati Uniti poi, per concludersi con il ritorno in Francia. Se fossi condannata a leggere lo stesso unico libro continuamente per dieci anni, sceglierei certamente questo: ogni rilettura svela qualcosa di nuovo, ogni episodio è quasi un romanzo a parte, come trovarsi tra le mani un file zippato pronto ad espandersi in ogni momento. Lo stile narrativo è molto particolare, il linguaggio popolare e a volte leggermente sgrammaticato rende la lettura piacevolissima. Non posso pensare che non affondino in Céline le radici della letteratura che verrà con a tema l'umanità alla deriva, le miserie senza speranza, la povertà senza riscatto. Non ci sono buoni e cattivi, vittime e aguzzini, non c'è lotta tra bene e male, nessuna speranza, tutti affondano nei medesimi liquami.
In queste pagine, come fiori sul letame, troviamo una delle più belle dichiarazioni d'amore mai scritte e la descrizione della morte di un uomo, tra le più intense e struggenti mai lette, nella sua semplicità e fatalismo.