FIRENZE. Le foto di scena, nelle rappresentazioni teatrali, soprattutto per chi ha il piacere di recensire, sono fondamentali. In un atto di poco più di un’ora ci sono una miriade di scatti virtuali da consegnare a chi di dovere per il comunicato stampa. Quelli di Monia Pavoni, filtrati dall’addetta Simona Nordera, sono davvero quanto di meglio si possa e si potesse cementificare nell’immaginario postumo da consegnare ai (re)censori e dunque ai lettori. Proviamo a riavvolgere il gomitolo di Panoramic Banana facendo finta di non aver letto nulla, a proposito, anche in considerazione del fatto che lo spettacolo, in scena ieri al Cantiere Florida di Firenze, ha rappresentato l’epilogo della XXXII edizione del Festival Fabbrica Europa. Il Dj Biagio Caravano, che sulla schiena ha una scimitarra sorretta in vita da una cintura, all’occorrenza può diventare il Sandokan de noantri, visto e considerato che i suoi cinque tigrotti (Sebastiano Geronimo, Luciano Ariel Lanza, Flora Orciari, Laura Scarpini e Francesca Ugolini), invitati a una festa di finemondo e alla quale si presentano in tuta adamitica e con il volto coperto, non smettono un attimo di danzare, e non di ballare, sulle note che arrivano dalla consolle, un misto techno/dark con riferimenti afro (The Creautures). Sul maxischermo verticale, proprio davanti al sint, illuminato a dismisura con cromatismi accecanti (Giulia Broggi), uno stordente vecchio video gioco, all’occorrenza foriero di ludopatia, nel quale si susseguono, annullandosi reciprocamente, una moltitudine di immagini (Lorenzo Basili) care, preziose, al Capitalismo; i simboli delle multinazionali, delle piattaforme sociali, delle auto, dello star system femminile e altre non debitamente catturate dalla nostra stanca voglia di memorizzare, che finiscono per far posto a un mitra, una bomba, una pietra preziosa e una tigre, di Mompracen, naturalmente, visto che al Dj abbiamo già affibbiato l’assonanza sandokaniana. Non sappiamo cosa abbia voluto dire, o volesse dirci, il poeta Michele Di Stefano, pluridecorato coreografo che già oltre due lustri or sono ha ottenuto il significativo e sintomatico Leone d’Argento per l’innovazione nella danza alla Biennale di Venezia. Né ci siamo presi cura di chiederglielo, alla fine della rappresentazione; chissà quanto tempo sarebbe occorso per dare la giusta ossatura all’intera costruzione e chissà che tristezza avremmo potuto provare nel sentirci eventualmente dire dall’autore cose che noi non avremmo neppure immaginato. Abbiamo preferito restare nella nostra inconsapevole presunzione e ci siamo lasciati guidare, come sempre, dal sensazionalismo che gestisce, sistematicamente, i nostri commenti. Non siamo forse a Mompracen, ma nemmeno molto lontano da lì, probabilmente e i cinque sopravvissuti, che sanno di esserlo solo al termine, quando il loro domatore malese impone loro un messianico raccoglimento, invitando vittime e carnefici a chiedere perdono e clemenza, scoprendosi i volti e riconoscendosi, si alternano al cospetto del pubblico in movimenti che richiamano, spudoratamente, le immagini che fino a poco prima hanno campeggiato sul palco, cambiando meravigliosamente la colorazione delle proprie tutine a seconda delle proiezioni luminose che scendono dall’alto, un gioco di ombre che tocca il proprio apice quando queste riescono addirittura a sdoppiarsi in un sensazionale bicromatismo. Ma per il gruppo MK (questo il nome della Compagnia in piedi ormai da venticinque anni), questi dettagli sono il sunto della loro ideologia, dove il caotico e babelico divenire finisce per essere, puntualmente, il nuovo ordine di sopravvivenza, in un ambiente subdolo e privo di principi, prima che di regole, nel quale, sovente, la ragione spetta, di natura, a colui che meglio di chiunque altro riesce a decifrare il volere dei potenti e la possibilità di continuare a sopravvivere, almeno sorridendo, di fronte ai loro dettami, così che, alla prossima potenziale catastrofe, il gruppo dei sopravvissuti sappia da chi prendere ordini. Il rischio che corre Michele Di Stefano e la sua navigatissima ciurma è che il tempo assottigli le idee e che il day after da troppo tempo temuto diventi, con il trascorrere dei Festival, soltanto un meraviglioso escamotage.