FIRENZE. Per i puristi del Fenicottero, con quel viso rubicondo e in continua profanazione della sacralità di quella danza musicale andalusa, Rocio Molina è semplicemente una meravigliosa, impeccabile, irriverente provocatrice, che sembra essersi presa la briga di rivoluzionare, definitivamente, il Flamenco. In questo Mondo che cambia confini, sintassi, paure alla velocità della luce, c’è ben poco da meravigliarsi (se continuiamo a non muovere un dito per Gaza, cosa altro dovrebbe succedere?), ma l’operazione della bailaoras dissociata, ma non pentita e aspirante punk è, insindacabilmente, straordinaria. Perché non rinnega assolutamente nulla di quello che ha imparato e raffinato nei suoi circa quarant’anni di studio (ne ha appena 41, ma a tre, era già sul palco), ma dal suo Almario (l’armadio dell’anima), nel quale custodisce un’infinità di ricordi, oltre che abiti, scialli e nacchere, ha deciso di spolverare e traghettare, sull’altra sponda della danza e della sua esistenza, non solo quel linguaggio intimo e privato che caratterizza da oltre tre secoli il Flamenco, ma anche e soprattutto l’incedere collettivo della necessità di immedesimarsi nei suoni, nella materia e nel loro continuo divenire. Ecco così spiegato e giustificato il furto di un secchiello di sabbia da una spiaggia non necessariamente andalusa, ma anche catalana, perché no, che crea una fotografia nuova e diversa rispetto all’immaginario collettivo, una singolare rappresentazione alla quale, fino a Rocio Molina, solo l’immaginazione pura e senza filtri dei bambini avrebbe potuto nascere e acquistare sagoma e fisionomia credibili. Per non parlare delle bustine di granuli di chewingum, che prima di diventare gomma da masticare da cui fare bolle che poi scoppiano, emettono un divertente sfrigolio che accarezza e stuzzica il palato, che con la bocca aperta e il viso rivolto all’insù, approfittando del microfono che contemporaneamente è stato catapultato nel bel mezzo del proscenio, raccontano una miriade di giochi e ricordi adolescenziali che credevamo non appartenerci più e con i quali, da ieri sera, riprenderemo a far sì che si materializzino, non foss’altro per rinverdirne la memoria. Certo, perché il Flamenco non si indigni fino all’insurrezione e faccia una specifica richiesta danni culturali, morali e musicali, ci vuole una chitarra, che solfeggi con imponenza e fisicità come maestosa tradizione impone; a questa ci pensa Yerai Cortés e tutta La Pergola di Firenze, che ieri sera ha assistito alla prima nazionale di Vuelta a Uno, si alza in piedi e ringrazia, in un incalzare di applausi che sono la summa dello stupore e del ringraziamento, tra un non ci avevo mai pensato e ma certo, questa è la nuova direzione, scoprendo, proprio mentre la rappresentazione scarica a terra tutti i propri fulmini, la nuova frontiera di questa antica danza, che invece che essere a fine corsa, torna all’origine e diventa altro, come un Fenicottero che si scopra Camaleonte. L’ambiente è quello che si è costruito attorno alla XXXII edizione di Fabbrica Europa di cui il Teatro declassato de La Pergola, retrocesso per manifesta bellezza di programmi e produzioni, ha deciso di ospitarne questo sontuoso appuntamento. Il palco è uno stadio illuminato da 76 occhi di bue, così posizionati: quattro file da sei sui due lati laterali e quattro da sette in fondo, che si accendono e si spengono con la medesima ritmicità con la quale i due protagonisti intessono le loro conversazioni, fatte di riflessioni, a volte esageratamente lunghe e flebili confidenze, intraducibili anche in un ambiente nel quale vige il più rigoroso e religioso silenzio. Nel mezzo, dove le scarpe con i tacchi metallizzati possono musicalmente battere il tempo e trionfare, ma anche sofficemente attutire le piante dei piedi scalze, qualche ripiano, dove sedersi, confrontarsi, confabulare su quello che Rocio e Yerai, sodalizio consolidato dalle prima due esperienze di questa stravolgente trilogia, decideranno di fare e offrire al pubblico, che segue rapito, ammutolito, cercando continuamente di capire e per fortuna senza riuscire a farlo, in vortice di giochi adolescenziali ricordati e reinventati sulle basi di decenni di studio matto e disperatissimo. Perché non bisogna capire, ma ascoltare; non occorre interpretare, ma lasciarsi guidare; e perché mai razionalizzare, facendo ricorso a tutte le conoscenze specifiche che ognuno di noi si è fatto lungo la propria esistenza? L’epilogo è circense, spettacolare, come i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno, dove il fragore delle luci smorza e cromatizza il boato degli scoppi. Ci pensano i ventagli che Rocio si è posizionata lungo la vita come Clint Eastwood fa delle sue cartucce prima dello scontro finale con i banditi che vorrebbero assalire la banca di El Paso. A parte qualche datato curioso, La Pergola è piena di sognatori, come Saverio Cona, codirettore del Festival Nutida e tutti quelli che da decenni, sulla danza contemporanea, nonostante le furibonde resistenze dell’armonica correttezza, hanno puntato le loro esistenze.