di Simona Priami

UN LAVORO eccellente, Hill of vision, ricco, ricercato e soprattutto coinvolgente. Lo spettatore deve essere pronto a commuoversi davanti a questo biopic di Roberto Faenza che emoziona, fa sorridere, piangere, tocca nel profondo, ma fa anche riflettere perché i messaggi e gli insegnamenti sono numerosi, tra questi il più immediato: nelle avversità si sviluppa l’ingegno. Il film analizza la vita di Mario Capecchi, italo-americano che da un’infanzia difficilissima arriva a conquistare il Nobel per la medicina, nel 2007. La storia viene raccontata dal bambino (Edward Holcroft) in prima persona e inizia con tono ironico e delicato. La vicenda si svolge durante la seconda guerra mondiale: la prima parte in Italia, la seconda in America. Non si accenna all’ideologia o alla politica, si sente solo come sottofondo una radio come strumento del consenso. Mario è figlio di genitori non sposati, padre convinto fascista e Lucy, la madre, americana antifascista. La loro relazione dura pochissimo anche a causa dei grandi contrasti ideologici e dell’estrema diversità di indole e vedute; lui conservatore e impegnato sostenitore del regime, lei dolce e distratta, sensibile e pronta a contrastare la dittatura.

Mario, dopo un primo straziante abbandono da parte della mamma, successivamente deportata, viene affidato a contadini e con loro vive un periodo abbastanza spensierato; ma le circostanze politiche si complicano e il bambino si troverà per strada dove unitosi ad altri ragazzi vivrà alla giornata di espedienti, elemosina e piccoli furtarelli, per poi finire in orfanotrofio. Sembra una triste fiaba, ma è realtà e il bambino sopravvive, supera la fame, l’abbandono, la povertà. Una storia che ricorda in modo immediato Oliver Twist e molti personaggi dickensiani, vivaci e intraprendenti, pronti a reagire davanti alle avversità della vita. È evidente anche il riferimento come genere al romanzo o film di formazione. Il tema dei bambini abbandonati durante la guerra, inoltre, rimanda a Jona che visse nella balena, film sempre egregiamente diretto da Roberto Faenza. Dopo le turbolenze Italiane e l’alternarsi di vicende positive e negative, Mario si ritroverà in America dove vivrà in famiglia, cercando di imparare a rispettare le regole. Le difficoltà però non sono terminate; non è facile adeguarsi a quel mondo che lo ha tenuto lontano per tanto tempo. In quest’ultima opera di Faenza, fatta di abbracci e addii per crescere, le figure femminili spesso materne, come la zia e la prostituta Isabella, aiutano il protagonista nel suo percorso verso la maturità; viene profondamente analizzata l’infanzia di Mario, come il rapporto intenso, ma drammatico, con la madre (eccellente interpretazione di Laura Haddock), personaggio misterioso e sofferente, fragile a livello psichico, innamorata del suo bimbo; scrive poesie e sta in un mondo tutto suo, dice il figlio, narratore della storia. Che è vera, eccezionale, dove la tragedia si mescola alla leggerezza narrativa e soprattutto alla speranza e dove vengono inseriti documenti dell’epoca in bianco e nero e il finale con il riconoscimento del Nobel. Una regia che ci ricorda Jojo Rabbit e Charlie Chaplin, eccellente colonna sonora di Andrea Guerra, ottima la recitazione di tutti, la sceneggiatura ha richiesto molti anni di elaborazioni. Complimenti alla recitazione dei bambini e soprattutto il film ci ricorda che sono proprio loro le prime vittime innocenti di queste inutili, insensate carneficine che sono le guerre. Ricordiamo poi che Mario Capecchi, che oggi ha 84 anni, a scuola – e il film lo documenta -, fu definito quoziente intellettivo bassissimo, quasi zero.

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