di Elena Bernardini

LA REALTA’ non mi piace più…, allora la trasfiguro. È questo il punto focale del film di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio. Opera di formazione in quanto la rappresenta, delinea il destino di Fabietto seguendo il suo percorso artistico e sentimentale in una Napoli inconsueta (baciata da una luce che sembra non sua, ma che in realtà è quella del luogo interiorizzato), mancante dei suoi luoghi comuni, ma affollata dai caratteri che la rendono unica. Manca la solita rappresentazione della città. Napoli, qui, è una città vista attraverso un percorso nei suoi sotterranei reali e culturali e che riesce a esprimere sublimi creatività. La prima parte del film delinea e fa agire magistralmente i caratteri. In una città stranamente immobile la procace (e svitata) zia può incontrare San Gennaro che le dà un passaggio in macchina e le fa incontrare o’munaciello (il grandioso lampadario a terra, nella casa nobiliare in cui avviene l’incontro è una trovata scenica di grande effetto); le riunioni di famiglia sono occasioni impareggiabili per esercitare in positivo tutta l’ironia e tutto il cinismo della tradizione, archetipi comportamentali e culturali che si rivelano essere la vera livella (anche se non palese) per il popolo e l’alta borghesia della città. Fabietto non sa quale sarà la sua strada dopo il liceo.

Forse filosofo, forse il cinema, intanto incontra persone da ciascuna delle quali assorbe visioni e parole, con uno sguardo puro. Il fratello che vuole fare l’attore, la sorella sempre chiusa in bagno, i genitori che si amano di un amore assoluto (nonostante l’infedeltà del padre), una schiera di parenti e amici variegati dei quali si coglie il carattere, appunto. L’incanto di una età in formazione in un ambiente favorevole e comodo. Incanto che si spezza, all’improvviso, inaspettatamente, con la morte dei genitori. È da qui che inizia la fine della fanciullezza, è da qui, venendo negata la possibilità di vedere i corpi dei genitori defunti, che si delinea la necessità di vedere la realtà da un altro punto di vista, quello del personaggio appeso a testa in giù (ci è sembrato tanto somigliante al Sorrentino vero) nella scena del film che Fellini sta girando nella galleria Umberto I e che incanta Fabietto, che, con il suo sguardo trasognato, imprime nella sua mente. Uno a uno i caratteri, con il procedere del racconto filmico, perdono la loro miticità, mai venendo meno, però, alla loro aura magica. Non è disillusione quella che si compie: è la conservazione della magia e la necessità di mantenerla in una rappresentazione più adulta che diventa urgente e piena di una malinconica poesia, altissima. È stata la mano di Dio non è il film della maturità di Sorrentino, come tanti hanno scritto. È invece l’opera di disvelamento di tutto il suo lavoro fino ad oggi, per lui e per noi. Il suo 8 ½, praticamente, con il placet di Fellini citato e onorato dal regista napoletano. Almeno speriamo che sia così, perché a questo punto siamo in fervida attesa della sua prossima opera, che chissà cosa altro ci regalerà. Intanto non perdiamo nemmeno uno degli stimoli che il regista ci offre su un vassoio d’argento. Primi fra tutti i caratteri: da imprimere nella mente lo zio, impersonificazione del profano intriso di sacro, devoto a Maradona più che a qualsiasi altra figura mitologica o rituale; la zia svitata, forse solo delusa da una vita matrimoniale insoddisfacente e a tratti violenta e figura di riferimento sensuale; la cugina che sposa un evidentemente abbiente signore molto più grande di lei che parla per mezzo di un laringofono; i genitori (un Servillo veramente a suo agio nel ruolo del padre), amanti e complici fra di loro tanto da sorvolare su incidenti matrimoniali elaborati con buona pace di delusioni che non diventano rancori; una sorella perennemente chiusa in bagno che vedremo solo alla fine del film e che finalmente scoppia in un pianto liberatorio venendo incontro alla camera; un fratello che rimane ancora per una settimana a Stromboli, quindi ai piedi di un altro vulcano (attivo, peraltro), mentre Fabietto rientra a Napoli; la parente (definita la donna più cattiva di Napoli) che indossa perennemente una pelliccia e che porge le condoglianze declamando la prima terzina del canto III della Divina Commedia (Per me si va nella città dolente); l’anziana Baronessa, prima educatrice sentimentale del ragazzo; il contrabbandiere di sigarette sfigato che propone a Fabietto un giro in piazzetta a Capri, di notte, deserta, dove l’unico incontro, seduti al tavolo di un locale chiuso, è quello con il trafficante d’armi Adnan Kashoggi che si palesa come un’apparizione grottesca. E poi il regista Antonio Capuano, stolkerato da Fabietto e che, da perfetto sconosciuto, diventa l’artefice del disvelamento. Alle insistenze del ragazzo risponde, con un certo disappunto, che la città deve per forza dargli degli spunti per scrivere una storia: ma in un posto come questo non hai niente da raccontare? Dimmelo! È qui che esce fuori, per la prima volta, il grumo che il ragazzo si teneva dentro: non aver potuto vedere i corpi dei genitori morti. E dando un nome, definendo il disagio, si palesa la creatività, il bisogno di rappresentare la realtà che non mi piace più in termini di trasfigurazione, guardandola da diversi punti di vista, anche a testa ingiù, per riuscire a farla propria e ad accettarla. Maradona visto allo stadio e in tv, o’ munaciello che scopre la faccia e saluta, mentre Fabietto parte per Roma in treno, Napul’è di Pino Daniele sui titoli di coda sono solo l’inizio di quello che Sorrentino ci regalerà in futuro. Almeno, e ci ripetiamo, speriamo.u

Pin It