di Virginia Longo

BOLOGNA. Puntuale come il rintocco della campana di San Petronio, è tornato anche quest’anno il Cinema Ritrovato sui grandi schermi dei cinema d’essai del quadrilatero bolognese e nella suggestiva Piazza Maggiore. Ha compiuto trent’anni. Sono stati trent’anni lunghi e veloci, dalle edizioni pioniere, piccole enclave di cineasti coraggiosi che portavano i loro tesori a Bologna per mostrarli sullo storico schermo del primo Lumière, a un presente che affolla cinque sale e riempie fino all’ultimo angolo di piazza Maggiore, con un pubblico sempre più internazionale, appassionato, competente. Dal 25 giugno al 2 luglio scorso si sono alternati gioielli italiani come Il sorpasso di Dino Risi, sotto le stelle di piazza Grande – come la chiamava l’indimenticato Lucio Dalla – fino a successi internazionali controversi come Ultimo Tango a Parigi, che ha lanciato la giovanissima Maria Schneider e inaugurato una nuova fase nella carriera di Marlon Brando.

 

Diretto nel 1972 da Bernardo Bertolucci, regista oltraggioso italico, il film racchiude un po’ tutti i generi famosi dell’epoca: l’erotico, il thriller-noir e l’estetica drammatica e intimista inaugurata da Antonioni. In quegli anni Brando sentiva gli echi dei suoi gloriosi anni Cinquanta e Sessanta, decenni in cui era considerato l’uomo più sexy del mondo e veniva osannato per le sue capacità interpretative. Dopo due lustri di lontananza dal grande schermo, dopo l’incompreso film western One Eyed Jack, approda a Parigi per un ultimo tango con la vita, avvolto in un’espressione amareggiata e compassata di chi ha molto sofferto e di chi non si aspetta più molto dall’amore e dai facili entusiasmi della giovinezza. È vicino ai cinquanta, non ha più il fisico scolpito di Fronte del Porto e la capigliatura selvaggia e folta di Un tram chiamato desiderio, ma ha acquisito ancora più fascino. Le labbra carnose sono le stesse, come il suo magnetismo maschio e irresistibile. Passeggia trasognato e sbigottito per le strade della capitale francese e non si accorge neanche della ninfetta Schneider che lo supera nel suo cappotto con pelliccia, tenta di fargli un occhiolino e strappargli un sorriso nei primi fotogrammi del lungometraggio, volteggiando e saltellando sulle sue gambe affusolate. Arriva in un palazzo per affittare un appartamento e lì incrocia di nuovo Paul (Brando). Si scopre che lui altro non è che il proprietario d’albergo, rimasto vedovo da pochi istanti. La ragione del suicidio della moglie rimarrà ignota per tutta la proiezione, ma il vuoto e il senso di solitudine regna supremo e soffocante, il dubbio nel flusso di coscienza di Paul è palpabile e scava come un tarlo anche nella mente degli spettatori. La disperazione umana dilaga perfino nei momenti di tenerezza ed erotismo spinto tra Jeanne (Schneider) e Paul, che si scoprono e imparano e conoscere pregi e difetti l’uno dell’altra in quelle quattro mura di una stanza d’albergo. Non bisogna scambiarsi nomi o esperienze veritiere in quegli incontri clandestini; solo baci e sesso sfrenato, storie finte e barzellette, intimità strettamente fisica che ineluttabilmente scalda e fa nascere sentimenti, ahimè reali e concreti. La tanto vituperata e scandalosa scena del sesso anale imposto e imburrato non ha niente di squallido. È una metafora sull’ambivalenza affettiva della sacra famiglia, nido e nello stesso tempo assassina rapace delle ambizioni e delle inclinazioni individuali. La pellicola è un’escalation di follia, un inesorabile crescendo, percepita da entrambi i protagonisti. C’è un qualcosa di grottesco e comico nella scena del ballo, in cui Jeanne e Paul si fanno beffa dei ballerini di tango impegnati in una sfida. Paul scopre anche il derrière come ultima sfida alla rigidità dei ruoli dei tangheros e come pernacchia finale alle miserie della vita e alle illusioni dell’amore. L’epilogo è leggenda, inutile raccontarlo, senza contemplare l'eventuale scippo di una suspence già metabolizzata da intere generazioni di amanti del grande schermo. Bertolucci, comunque, trovò la soluzione migliore per quell'inimitabile e irriproducibile rapporto clandestino, animato e affidato a due diverse disperate solitudini: una farcita dalla noia di vivere e dalle incertezze – quella di Jeanne - e l’altra più angosciosa perché consapevole – quella di Paul. E anche in questo caso, come in ogni altra sua esperienza cinematografica, Bertolucci rivela un'insindacabile verità: le sue pellicole erano, sono e resteranno immortali; per tematiche, per il fascino di un protagonista irripetibile, per l’inconsistenza delle nuove generazioni e per un’umanità frammentata che non ha più appigli o punti di riferimento.

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