di Caterina Fochi
Quando Quentin Tarantino si mette dietro la macchina da presa, quello che vediamo non è quello che stiamo vedendo e quello che ascoltiamo non è quello che stiamo ascoltando. E se andando al cinema per vedere The Hateful Eight eravamo convinti di entrare in una sala cinematografica, ci siamo sbagliati di grosso, perché in realtà siamo andati a teatro. Con il suo ottavo film, Tarantino mette in scena una vera e propria opera teatrale ripartita in cinque atti, con tanto di ouverture, per la quale la scelta del formato Ultra Panavision 70 risulta particolarmente congeniale, visto che consente di accedere alle dimensioni, ma soprattutto, alla profondità di un palcoscenico.
Così si alza il sipario e lì, proprio in quella geniale apertura, con il panorama montano del Wyoming sullo sfondo che toglie il respiro e una tormenta in arrivo che mette i brividi, tutto il valore e la potenza del simbolo si esplicano nella loro funzione evocativa con un'immagine in primo piano talmente forte che taglia la scena in quattro parti rischiando di passare inosservata. Ma c’è - eccome se c’è - quel Cristo in croce sepolto sotto una fitta coltre di neve che misericordioso sovrintende all’eterna lotta tra il bene ed il male. Così, facendoci credere di aver girato un mystery film in perfetto stile Agatha Christie, travestito da western, questo outsider del cinema compone una trama complessa e intricata con lunghissimi dialoghi che in realtà è una vera e propria lezione storico politica e, come Steven Spielberg con Lincoln e Il Ponte delle Spie, riporta l’attenzione su ciò che è e deve essere fondamentale: l’uomo al centro dei valori dell’umanità.
A pochi anni dalla fine della Guerra di Secessione, una diligenza attraversa le valli del Wyoming diretta a Red Rock. A bordo viaggiano un cacciatore di taglie, John Ruth (Kurt Russel) e la donna che deve consegnare alla giustizia, Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). Durante il tragitto, poiché sta per abbattersi sul luogo una tempesta di neve, accettano di dare un passaggio a due stranieri: il Maggiore Maquis Warren (Samuel l. Jackson) uomo di colore ed ex soldato dell’Unione diventato anche lui cacciatore di taglie e Chris Mannix (Walton Goggins), un sedicente sceriffo. I quattro, costretti a cercare riparo per la tormenta in un emporio, vi rimarranno bloccati insieme alle persone che già vi si trovano: un ex generale sudista (Bruce Dem), un messicano (Damian Bichir), un boia (Tim Roth) e un misterioso cawboy (Michael Madsen).
Niente però è realmente quello che è, ma non è nemmeno quello che sembra essere e su tutto un’unica certezza: l’apparenza inganna. Gli otto personaggi in scena iniziano quindi un duello verbale e ideologico che porta a un continuo ribaltamento dei ruoli e capovolge ogni aspettativa, dove allo scontro tra sudisti e nordisti si unisce l’odio razziale, l’emarginazione dei messicani, i dubbi su una giustizia caricata di passione e tra vecchi rancori e nuove paure si ritorna a quella ricerca di identità dei personaggi che è soprattutto una ricerca di identità nazionale. Con questa pièce teatrale, Quentin Tarantino trasforma la baracca di Minnie in una cattedrale in cui, con un rito che non tradisce il suo stile, declama il suo sermone e torna a raccontare il passato per parlare del presente con impegno e maturità. In questa scelta autoriale si fa accompagnare da una colonna sonora che solo il più grande di tutti poteva scrivere, il maestro Ennio Morricone che, inseguendo il vento e la bufera con suoni sinistri e spaventosi, avviluppa nel presagio e tra percussioni e contrappunti fa tremare, quando la telecamera sfiora la statua lignea del Cristo piantata in mezzo al nulla, trasportando così il compositore e il regista in sintonia sulla stessa lunghezza d’onda all’interno di una vera e propria opera d’arte.