di Caterina Fochi

Un film, Storia di due fratelli e otto pecore, che arriva da molto lontano, ma che affonda le sue radici nella classica tragedia greca dove tutti gli elementi che la contraddistinguono sono rigorosamente rispettati.

 

A cominciare dalla statica ambientazione in un’isolata e desolata valle islandese in cui le due indistinguibili fattorie dei due fratelli protagonisti fungono da vere e proprie quinte alla scena. Il prologo non ha bisogno di dialoghi, bastano infatti pochi gesti per introdurci in un’epica diatriba, quella tra i due fratelli Gummi e Kiddley che non si parlano da 40 anni ma restano, nonostante tutto, vicini e uniti, non solo dall’amore per la propria terra e i rispettivi preziosi greggi, ma soprattutto da un legame profondo quanto ancestrale che solo una vecchia fotografia in bianco e nero dimenticata sopra un camino teneramente ci svela.

Il dramma arriva quando un’epidemia ovina, la scrapie, costringerà tutti gli abitanti della valle ad abbattere i capi dei greggi che sono certo l’unica fonte di reddito ma per Gummi e Kiddley sono soprattutto la famiglia, gli affetti, i figli sui quali hanno riversato quell’amore e quel calore che tra loro si sono negati. La tragedia li spoglierà non solo metaforicamente, ma letteralmente li metterà a nudo mostrandoci, anche attraverso la sofferenza impietosa dei loro corpi, tutta la vulnerabilità e la solitudine da cui le loro esistenze sono divorate.

Quindi arrivati all’epilogo, con l’uscita di scena del coro, ridotto ormai ad un piccolo gregge, calerà sulla tragedia un’improvvisa tempesta che, come un vero e proprio deus ex machina, risolverà la situazione e indicherà ai protagonisti la via d’uscita sotto una densa coltre di neve dove il calore dell’amor fraterno scioglierà in un abbraccio il dramma.

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