FIRENZE. Il minimalismo teatrale non aiuta affatto a trasportare, sul palcoscenico, la poesia fatata e magica di Gabriel Garcia Marquez: i suoi tempi narrativi sono biblici, anche quando la struttura della composizione del volume richiede ermetismo, come per Dodici racconti raminghi, da cui Elena Delithanassis (Maria) si è lasciata ispirare per dare vita al riadattamento di uno di questi, Sono venuta solo per telefonare, ieri sera al Teatro Cantiere Florida di Firenze. La tentazione, onnivora, è quella che ci indurrebbe a parlare di Gabo e delle sue infinite meravigliose sfaccettature sintattiche, poetiche, storiografiche. Siamo in Spagna, nel triste periodo franchista; i non allineati, ma anche altri, spesso inconsapevolmente, fanno una brutta fine, scompaiono, escono dai radar e dai riflettori dell’esistenza. Come Maria, a cui l’auto presa a noleggio per recarsi a Barcellona dal Mago Saturno (Marco Palazzoni), il marito, si guasta nel bel mezzo della strada, sotto una pioggia battente. L’unico mezzo che corre in soccorso della fradicia malcapitata è uno sgangheratissimo pullman di linea, che però è diretto al manicomio, da dove l’avvenente ballerina non riuscirà mai a telefonare al proprio consorte, se non quando gli effetti mirabolanti dei sedativi rieducativi avranno fatto il loro sporco effetto, se non quando sarà ormai tardi, in parole povere, quando la sua vita e i suoi sogni si saranno tristemente infranti nel muro di gomma della dittatura. È la vita e le sue incredibili e impreventivabili coincidenze, soprattutto quando si vive sotto un regime che tiene a bada in maniera spicciola i suoi sudditi. Marquez, di queste situazioni paradossali, drammatiche, molte delle quali trascritte alla storia dai regimi militari che infiammarono e si succedettero nell’America latina, così tragiche che trovano ossigeno e resurrezione solo attraverso le sue parole salvifiche perché fantastiche, è maestro indiscusso. La Compagnia Hangar Teatri ha voluto credere nel tenero decisionismo della Delithanassis, producendole questa Maria, che Elsinor Centro di Produzione Teatrale ha voluto inserire nel programma del Florida della stagione in corso. E han fatto bene; entrambi. Perché la rappresentazione è un titanico sforzo attoriale, scenografico, drammaturgico, che richiama, cinematograficamente, i contrattempi a cascata che si generano, sempre a causa di un guasto a un'autovettura, in uno dei capolavori di Oliver Stone, U Turn. Certo, il racconto di Marquez non raggiunge le quindici pagine, ma lo spettacolo, in poco meno di un’ora, deve metter in mostra il processo di bestializzazione della giovane ballerina, che un semplice contrattempo automobilistico condurrà negli inferi, un viaggio di sola andata, che si concluderà solo quando il regime e i suoi ospedali di recupero verranno destituito e abbattuti e lei trasformata in uno scempio casualmente sopravvissuto alla follia. Elena Delithanassis - che firma anche la regia, cogliendo, probabilmente, i punti salienti di quel racconto consegnato alla Soria della letteratura -, carina, delicata, un giunco sottile che chiede permesso, ma che se trova un pertugio aperto sa come entrare, farsi notare e non farsi mandare via, trova un appoggio attoriale straordinario, che è quello offertole da Francesca Becchetti, una delle più autorevoli infermiere in forza all’ospedale psichiatrico, che coniuga abilmente il suo sadismo con le sue oscene aspirazioni erotiche. Senza mai lasciarsi andare laddove il truculento e il torbido troverebbero una sponda tanto fertile quanto ideale. Una rappresentazione che ha bisogno ancora di cura, attenzione, prove e correzioni, certo, ma che resta lì, indelebilmente scolpita sulle pagine di quel Teatro che dobbiamo affidare solo e soltanto all’abnegazione di chi ci crede e che fa di tutto, studiando febbrilmente, per meritarne un posto tra i competenti.